Da ormai due decenni il volgo utilizza la parola “imperialismo” per descrivere le azioni militari e politiche statunitensi in tutto il globo terraqueo. Il termine è corretto visti i precedenti storici: Panama, Iraq, Jugoslavia, Siria, Libano e Libia. In questo grande calderone di stati ve ne sono alcuni che erano legati – o lo sono ancora – con la Russia di Putin.
All’interno di essi gli USA hanno provato ad utilizzare qualsiasi metodo pur di conquistarli: dalle “guerre umanitarie per la democrazia” alle “rivoluzioni colorate” eterodirette da imprenditori e filantropi dalla dubbia natura umana. Il discorso fatto da Putin ieri sancisce il primo fermo a queste manovre imperialiste a stelle e strisce. Dopo la firma sul trattato del Donbass, il leader del Cremlino ha ufficialmente ristabilito quel duopolio – o sarebbe meglio definirlo tripolio per la presenza del regime cinese – originatosi nel secondo dopoguerra.
Per rispondere alla concezione imperialista di Putin, l’Occidente – dunque l’insieme atlantista – ha deciso che saranno applicate delle sanzioni, anche in questo caso inique, alle quali Putin risponderà con l’indifferenza. È l’ipocrisia della Casa Bianca, sepolcro imbiancato e nemico dell’Europa, che dovrebbe risvegliare dall’ignavia tutti quei paesi situati tra i due poli che si sono fatti ammorbare dall’onda di edonismo americano e che li ha trasformati in automi che consumano e ingurgitano fino all’ultimo istante prima della morte.
L’occidentalismo, che non è europeismo, non riesce a tollerare la presenza del diverso da esso. Cerca di dirimere le questioni attraverso la “guerra economica“, dunque rifacendosi al suo animo economico-consumistico che ho testé citato. Gli USA stanno provando ad evitare la saldatura geopolitica tra Russia ed Europa poiché temono lo schiudersi dello scrigno depositario delle istanze della Terza Roma, dunque di una visione imperiale antiliberale opposta a quella americana.
È l’eterno conflitto tra le potenze marittime e terrestri, il perenne duello tra il commercio e il lavoro dell’operaio di Jünger. Ecco perché non è possibile definire Putin come “il sovietico”, ma come “l’imperialista”. Sia per la concezione territoriale della Russia del leader del Cremlino, la quale è profondamente diversa da ciò che i suoi avi sovietici hanno lasciato, sia per la sua volontà di annettere al Grande Orso due repubbliche russofone, tralasciando dunque l’elemento prettamente politico per dare spazio alla componente della Tradizione. E il discorso di ieri ne è l’esempio.
Per la stesura di questo articolo ringrazio la lezione del mio maestro “indiretto” Maurizio Murelli.