Prima venne il turno delle terre irridente. Le conducemmo a noi poco dopo la fine del primo massacro mondiale. Poi fu il turno delle lotte intestine, le quali giovarono agli attuali conduttori dei nostri destini. Una lotta asfissiante, micidiale nei modi e nei tempi. Ci attanaglia ancora oggi.
Infine – anche se certi abissi non finiscono mai – arrivò il turno della lingua. Vituperata, demolita quotidianamente tramite marchingegni che obbligano all’utilizzo degli anglismi; la nostra lingua rischia di essere erosa fino al punto di scomparire. Al giorno d’oggi, anche l’utilizzo della parola “eburneo” suscita clamore.
Da dove deriva la nuova sfida? Abbiamo ripreso le terre, abbiamo versato sangue per trovarci nuovamente sottomessi, non perdiamo anche l’unicità della nostra lingua. Il primo nemico viene da un luogo remoto e si mescola con la volontà degli “ultimi uomini” di trasformare ogni piacere edonistico in diritto. È lo “schwa”.
Il linguaggio è la facoltà princeps del cervello umano ma, sebbene chiunque parli una lingua, sono pochi coloro i quali dovrebbero parlare di lingua. Oggigiorno la riflessione metalinguistica sembra essere diventata di gran moda, ma la linguistica è una disciplina scientifica e, in quanto tale, è recalcitrante alle briglie del “politicamente corretto”.
Negli ultimi anni lo schwa – la vocale centrale media – è divenuto il totem al quale prostrarsi in nome dell’inclusività linguistica. I paladini della “e rovesciata”, però, forse ignorano – o fingono di ignorare – la differenza tra norma e sistema (Coseriu, 1952). Il sistema comprende le unità funzionali e le regole di funzionamento nel codice linguistico; la norma, invece, è la convenzione condivisa all’interno di una comunità di parlanti e manifesta il sistema in atto.
Lo schwa appartiene all’inventario fonetico-fonologico di molti dialetti italiani, tuttavia non a quello dell’italiano standard. La comunità italofona non può accogliere l’uso dello schwa perché ciò che non è in potenza, certamente non può essere in atto.
Inoltre se osserviamo quei dialetti – ad esempio il napoletano- che utilizzano lo schwa in finale di parola, notiamo che tale impiego noj garantisce affatto la neutralità di genere: il processo della morfo-metafonia (Fanciullo, 1994) interviene nella distinzione tra maschile e femminile (russə = “rosso”); rossə = “rossa”).
Il mutamento linguistico, in modo imprevedibile e impredicibile, affiora nell’uso della lingua, ma si afferma e si impone a livello di norma se e solo se la comunità di parlanti lo recepisce spontaneamente in maniera positiva; diversamente, è condannato a rimanere relegato sulle tastiere e sulle labbra di quegli “ultimi uomini” che vorrebbero assoggettare persino la lingua a un’ideologia vuota dai vessilli arcobaleno.
A cura di Marco Spada e Francesca Speziale